DENTRO IL THRILLER

«Un rumore lacera il silenzio notturno e mi raggiunge nel mio letto, facendomi sobbalzare. Proviene dal pianerottolo.

Mi rilasso e mi giro dall’altra parte: è solo l’ascensore che si è fermato al mio piano; poi un armeggiare di serrature.

C’è qualcosa di strano, però. Il rumore è molto vicino. Sembra quasi che… Cazzo! Stanno cercando di aprire la mia porta!

Salto giù dal letto con il cuore che mi batte all’impazzata.

Chi può essere? Quanti sono? Che cosa posso fare? Non c’è tempo per chiamare la polizia.

Il rumore di serratura manomessa continua incessante.

Chiamare aiuto? Magari qualche inquilino del palazzo si affaccia sulle scale. Potrebbe essere sufficiente per farli desistere e indurli a fuggire. Figurarsi! Nessuno si azzarderà mai a mettere il naso fuori. I vicini potrebbero al massimo rimanere zitti zitti con l’orecchio incollato alla porta e sentirmi crepare.

E dire che avrei una pistola con cui difendermi, se non fosse in cantina, nascosta dietro due bottiglie di vino!

Faccio scattare l’interruttore generale: almeno saremo costretti tutti a stare al buio. È un vantaggio per me. Io conosco l’appartamento, loro no.

Vado in cucina e sfilo dal ceppo il coltello più grosso, più affilato e più appuntito e lo brandisco come un machete. A piedi nudi sono silenzioso come un gatto.

È un altro vantaggio.

Ora devo solo cercare di controllare il respiro. Il mio torace sta ancora pompando come un mantice: troppo rumore. Riesco a calmarmi. Sento l’adrenalina che scorre nelle mie vene. Avverto persino un accenno di erezione.

La serratura cede, la porta si apre. Rumore di passi all’interno della mia abitazione violata. Un parlottare sommesso e concitato. Direi che sono in due. Ci siamo»

Quella che avete appena letto è una tipica scena thriller, stralciata da un romanzo di recente pubblicazione di cui vi parlerò più avanti.

Che cosa sono i thriller e perché ci piacciono tanto?

Dicendo thriller, la mente corre ai film di Dario Argento, con l'assassino senza volto che insegue le vittime terrorizzate e le uccide con modalità efferate e sanguinose.

Chi  non è saltato sulla sedia, guardando "Profondo Rosso"?

Oppure ripensiamo alle situazioni angosciose e inquietanti, descritte in modo sapiente e raffinato dall'indiscusso maestro del brivido, Alfred Hitchcock. Uno su tutti: "Psycho". Ma anche "Gli Uccelli" o "La donna che visse due volte".

Che cos'è dunque un thriller?

Tanto per cominciare, in inglese to thrill significa rabbrividire. Quindi un thriller è qualcosa che fa rabbrividire. 

Come?

Utilizzando meccanismi narrativi che generano suspence e paura.

Un autore di thriller gioca con i propri spettatori o con i propri lettori, inducendoli a immedesimarsi con i personaggi del film o del romanzo, a parteggiare per loro e portandoli a condividerne le emozioni.

Emozioni forti. Tensione, ma soprattutto paura.

L'autore mette deliberatamente in pericolo il personaggio. Un pericolo reale, immediato, quando lo fa inseguire da qualcuno che lo vuole uccidere. Oppure un pericolo incombente, quando crea attorno a lui un'atmosfera di minaccia indefinita.

E così facendo, produce ansia, tensione o addirittura terrore anche nel fruitore della storia, spettatore o lettore.

L'effetto viene poi amplificato se il personaggio che si trova in pericolo è più debole  (un bambino, una donna), oppure se il fruitore è a conoscenza di una situazione di rischio, che il personaggio invece ignora (il protagonista della scena passeggia tranquillo lungo una strada, ignaro del fatto che dietro l'angolo c'è un assassino pronto ad aggredirlo).

Quindi i thriller ci piacciono perché ci fanno provare la stessa paura che provano i personaggi nei quali ci identifichiamo, oppure producono in noi una sorta di smania protettiva, indotta dal saperci impotenti di fronte ai pericoli, a noi conosciuti, che i personaggi per i quali parteggiamo stanno per incontrare.

Il meccanismo narrativo, di per sé, è abbastanza semplice ed è stato declinato in infinite forme e ambientazioni, persino in chiave western (voglio ricordare a questo riguardo l'ottimo film di Robert Mulligan "La notte dell'agguato"), o fantascientifica (che cosa mi dite del primo "Alien" di Ridley Scott?). 

Purché ci sia un protagonista in pericolo.

Ecco, mi sentirei di dire che fanno eccezione le storie di guerra. Di sicuro in guerra tutti i personaggi sono in pericolo, perché in battaglia prima o poi si muore, ma proprio per questo una scena di battaglia non suscita quel tipo di tensione.

In un thriller il pericolo deve alterare la quotidianità, gli equilibri consolidati. Deve giungere, insomma, del tutto imprevisto.

Abbiamo dunque i thriller gialli, gialli classici come quelli di Agata Christie ("Trappola per topi" ne è l'esempio più illustre), dove la sensazione di angoscia e di paura viene innescata dalla fatidica frase "l'assassino è uno di noi".

Poi ci sono i thriller avventurosi, come alcuni romanzi di Michael Crichton (fra tutti mi viene in mente "Congo"); i thriller di spionaggio ("La cruna dell'ago" di Ken Follett); i legal thriller, quando un avvocato deve raccogliere le prove dell'innocenza del proprio cliente e finisce per trovarsi in situazioni che mettono in pericolo la sua stessa vita (un esempio: il film "Suspect – Presunto colpevole" di Peter Yates); i thriller psicologici, nei quali la tensione si innesca attraverso situazioni complesse e intricate che agiscono sui personaggi soprattutto a livello emotivo, piuttosto che fisico ("Sconosciuti in treno" di Patricia Highsmith, da cui Hitchcock trasse il capolavoro "Delitto per delitto").

Ma perché ci piace così tanto rabbrividire? Perché ci piace aver paura?

Se ci pensate bene, fin da bambini, magari inconsapevolmente, siamo attratti dalle cose che mettono paura. 

Anche l'innocuo gioco del nascondino è un gioco di paura. C'è uno che si nasconde e un altro che lo cerca per prenderlo. Se viene scoperto, il primo inizia a scappare e l'altro lo insegue, perché il gioco non si accontenta di svelare il nascondiglio. Quello che si nasconde deve essere preso. E il fuggiasco si salva solo se riesce a raggiungere la casa prima che l'altro lo agguanti.

Questo è thriller. Direi che è la radice del thriller. Tutte le storie di tensione e di paura, in fondo, sono evoluzioni e variazioni di questo tema elementare: minaccia, nascondiglio, fuga, inseguimento, salvezza o morte.

Anche il brano con cui si apre questo articolo, tratto dal mio romanzo Il riflesso di un assassino, si basa sullo stesso meccanismo generatore di paura: un tizio sente qualcuno che sta cercando di forzare la serratura del suo appartamento, avverte il pericolo, cerca di improvvisare una possibile difesa, si nasconde e aspetta.

Naturalmente non vi dirò come va a finire nemmeno sotto tortura.

Ora vi propongo un secondo brano, tratto da un altro mio romanzo, dal titolo Il manoscritto rubato.

«La prima cosa che colpì la sua attenzione fu il cigolio delle rotelle poco oliate. Poi la sagoma dell’uomo che si avvicinava spingendo lungo il corridoio un carrello carico di lenzuola e asciugamani. Indossava indumenti di colore verde oliva, diversi da quelli che Egizia aveva visto addosso agli altri inservienti dell’albergo.

Quando il carrello fu accanto a loro, l’uomo, con estrema calma, si staccò, cinse Hari da dietro, premendogli l’avambraccio sinistro sotto il mento, e con l’altra mano gli conficcò nel fianco la lama di un pugnale.

Hari non accennò la minima reazione. Il suo viso divenne mortalmente pallido e lo sguardo vuoto, mentre il sangue sgorgava copioso dalla ferita, gocciolando sul pavimento con un rumore rivoltante di rubinetto semiaperto.

Egizia restò immobile, incapace di muoversi per lo sbigottimento e l’orrore. Mentre il corpo di Hari si afflosciava per terra, l’assassino la fissò con uno sguardo strano, come dispiaciuto, e fece l’atto di dirigersi verso di lei.

La percezione di quella minaccia diretta fu per Egizia come una scarica elettrica. Afferrò il carrello e lo lanciò con tutte le sue forze contro lo sconosciuto, il quale, colto di sorpresa, barcollò e perse l’equilibrio. Intravide in lontananza altre due figure che si avvicinavano, ma non la sfiorò neppure l’idea di invocare aiuto. Si girò di scatto e si precipitò verso una porta in fondo al corridoio, la spalancò e si ritrovò sul pianerottolo di una scala di servizio. Non si voltò neppure per accertarsi se l’omicida la stesse inseguendo e si buttò a rotta di collo in discesa, saltando i gradini a quattro a quattro. Aggrappata a un residuo barlume di lucidità, contò i piani e, quando giudicò di essere arrivata al piano terreno, si guardò rapidamente intorno. Su due lati opposti del pianerottolo c’erano due porte di metallo.

Tese l’orecchio per sentire se l’assassino fosse dietro di lei, ma non udì alcun rumore. Ansimando, afferrò con ambedue le mani la maniglia di una delle due porte e spinse con forza. Dava su un lungo corridoio spoglio e male illuminato. La ragazza immaginò che si trattasse di un passaggio di servizio che conduceva nell’atrio dell’hotel. Esitò un istante prima di buttarsi in quella direzione: se l’uscita in fondo al corridoio fosse stata chiusa a chiave, lei si sarebbe trovata in trappola. Provò con l’altra porta. Una ventata d’aria calda la colpì in pieno viso, togliendole per un attimo il respiro. Era finita dietro le cucine, in un cortile avvolto dall’oscurità della notte e ingombro di rifiuti.

I suoi occhi perlustrarono tutt’attorno, alla ricerca di una possibile via di fuga. Scorse una specie di vicolo che si apriva sull’altro lato del cortile. Doveva condurre sulla strada, perché la ragazza vide passare sullo sfondo alcune automobili. Rimase immobile per alcuni attimi, accucciata dietro un cassone per la raccolta dell’immondizia, cercando di resistere al fetore nauseabondo e di concentrarsi su quello che avrebbe dovuto fare.

Di sicuro il suo inseguitore non aveva rinunciato a eliminarla. Non poteva permettersi di lasciare in circolazione un testimone che l’aveva visto in faccia mentre pugnalava Hari Shah e, prima o poi, sarebbe uscito anche lui da quella stessa porta. Se soltanto gli fosse balenata l’idea che la ragazza potesse avere già raggiunto la via principale, forse sarebbe corso in quella direzione. O forse, invece, non avrebbe tralasciato comunque di perlustrare ogni angolo del cortile. A quel pensiero, Egizia avvertì una stretta dolorosa alle viscere.

Tutt’a un tratto la porta che conduceva alle scale di servizio si spalancò ed Egizia distinse nell’ombra la figura dell’assassino. Sentì il cuore che si fermava e si fece ancor più piccola dietro il cassone. L’uomo era a pochi metri da lei e stringeva ancora nella mano il coltello»

Anche in questo caso, il meccanismo della scena è basato sulla sequenza minaccia – fuga – nascondiglio. La ragazza assiste a un omicidio. È l'unica testimone, per questo sa che l'assassino ucciderà anche lei. Allora scappa e dopo cerca di nascondersi.

E anche in questo caso, per sapere se la ragazza si salva dovrete leggere il libro per intero.

Ecco un'altra scena thriller, tratta sempre da Il riflesso dell'assassino.

«Sento il rumore della porta che si richiude, come se venisse sbattuta. Avverto subito qualcosa di anomalo, un insieme di sentori indefiniti che tutt'a un tratto si coagulano in una domanda: se non fosse Samira?

Qualcosa mi afferra per il collo e mi manda a sbattere la fronte con violenza contro la mensola sopra il lavello. Per un attimo è come se avessero spento tutte le luci. Appena riesco a voltarmi, vedo a un palmo da me la faccia di Carmelo Schifano, rossa e contratta dall'ira. Dovevo aspettarmelo; presto o tardi, qui o da un'altra parte, sarebbe dovuto succedere.

    “Bastardo!” sbraita con quella sua odiosa voce arrochita da quintali di sigarette “Avevamo fatto un accordo io e te, ma tu te ne sei fottuto! Hai voluto fare il furbo? Be', ti è andata male, perché a me quelli troppo furbi non piacciono. Quelli troppo furbi io li ammazzo!”

Le sue mani si stringono attorno al mio collo con una tale forza da farmi strabuzzare gli occhi. Mi sembra che la testa mi si stia gonfiando come un palloncino e non riesco a respirare. Mi sta uccidendo davvero. Chi avrebbe immaginato che la mia vita da innocuo borghese avrebbe avuto termine in un modo così idiota: assassinato da un bullo di quartiere, a causa del morso di un cane! Sembra tutto così surreale, eppure le dita di Schifano stringono come una garrota le mie vene e le mie vie respiratorie. Ho letto da qualche parte che la morte per strangolamento non avviene per asfissia, ma perché la compressione dei vasi sanguigni impedisce l'ossigenazione del cervello. In pratica, dopo circa un minuto si perde conoscenza.

Quanti secondi sono già passati? Quante delle mie cellule cerebrali sono morte?»

Qui il protagonista è vittima di un’aggressione improvvisa. Ha aperto la porta del suo appartamento, pensando che si trattasse di una donna con cui aveva un appuntamento e invece si ritrova alle prese con un pericoloso malvivente. Il pericolo mortale fa scattare il meccanismo della tensione e della paura, ma la domanda non è “ce la farà a salvarsi?”. Il fatto che si salvi è piuttosto scontato. Tutta la storia è raccontata in prima persona e non sarebbe verosimile che l’io narrante finisse strangolato. Dunque, in questo caso, la domanda è “come farà a salvarsi?”

Thriller!

Ma torniamo alla domanda principale: perché ci piace aver paura?

Innanzitutto, la paura che ci piace è quella filtrata attraverso un mezzo: film o libro. Ci piacerebbe allo stesso modo se l'origine della paura ci riguardasse in modo diretto? Non credo, anzi sono certo che nessuno sano di mente trarrebbe godimento dall'essere inseguito per davvero da un assassino.

Invece, mentre leggiamo un libro o guardiamo un film, per quanto ci sentiamo coinvolti nella storia e immedesimati nei personaggi, sappiamo che comunque si tratta soltanto di finzione.

Forse, allora, ci piace provare paura solo nella finzione, perché il ritorno a una realtà rassicurante ci procura sollievo. Come nel gioco del nascondino.

Forse la paura nella finzione ci aiuta a esorcizzare le paure vere, forse serve a formare gli anticorpi necessari ad affrontare possibili situazioni di pericolo nella realtà.

Adesso vi voglio proporre  un altro brano, questa volta tratto dal mio romanzo Un testimone pericoloso.

«Una cameriera poco più che adolescente si avvicinò e gli chiese se desiderasse qualcos’altro.

    “Posso suggerirle una Pride?”

Un uomo sulla quarantina era sbucato alle spalle della ragazza e gli sorrideva, reggendo in mano un boccale di birra ancora quasi pieno.

Approfittando dell’esitazione di Serse, il nuovo venuto annuì alla cameriera e disse: “Un’altra Pride”.

Indossava un completo blu di cotone e una camicia azzurra senza cravatta, con il colletto aperto. Sembrava un manager della City in libera uscita. Serse non poté fare a meno di notare che era identico all’attore Paul Bettany.

    “Posso sedermi?” chiese l’uomo.

    “Ci conosciamo?”

    “Lei non mi conosce, ma io conosco lei, signor Perry.”

Il pensiero di Serse corse subito al profilo di Calvin Perry su Facebook. Eppure il libro da lui pubblicato on line era scritto in italiano e questo rendeva molto improbabile che lo sconosciuto fosse un suo lettore. E da quando era arrivato a Londra, eccettuati Geoffrey Pendleton, Amitav e i compagni della scuola di canto, non aveva stretto rapporti con nessun altro.

    “Com’è che mi conosce?”

    “Lei è molto preciso” rispose Paul Bettany.

    “Che cosa intende dire?”

    “Il suo modo di operare è essenziale, senza sbavature. Straordinariamente efficiente.”

Parlava con un tono compiaciuto, quasi divertito.

    “Mi dispiace, ma non riesco a capire” replicò Serse, che incominciava a sentirsi a disagio.

L’altro estrasse una fotografia dalla tasca interna della giacca e la fece scivolare sul tavolo, verso di lui.

Se in quel momento, anziché in un pub di Pimlico, Serse si fosse trovato sull’orlo di un dirupo, intento ad ammirare il panorama, e qualcuno alle sue spalle l’avesse buttato di sotto con uno spintone, avrebbe provato la medesima sensazione.

L’immagine lo ritraeva nell’atto di conficcare la matita nell’occhio di Ivo Bormida, il cui volto era deformato da una raccapricciante smorfia di dolore. Il livello di definizione non era eccezionale, ma l’inquadratura in piano medio era sufficiente a far sì che il suo viso fosse riconoscibile. Così come il gesto che stava compiendo non lasciava spazio a dubbi.

Serse capì subito che sarebbe stato inutile tentare di negare l’evidenza. Si sentì di colpo svuotato. Quel passato, dal quale credeva di essersi allontanato in modo definitivo, era tornato e si era abbattuto su di lui come un fendente, togliendogli ogni capacità di reazione.

    “E tu chi cazzo sei? Uno sbirro?” disse con un filo di voce.

    “No, no!” si affrettò a chiarire l’altro, con il tono e l’espressione più rassicuranti che riuscì a trovare. “Mi chiamo Sidney e rappresento, come potrei dire… Una società di servizi.”

    “Che genere di servizi?” domandò Serse di poco sollevato, ma non meno inquieto.

Il suo interlocutore rimase un attimo soprappensiero, come se stesse cercando le parole adatte.

    “Noi uccidiamo le persone” disse infine.

Serse fece vagare lo sguardo tutt’intorno, quasi a cercare nella folla degli avventori un improbabile riparo.

Chi era quell’uomo? Che cosa voleva da lui? Come aveva fatto a procurarsi la prova del delitto che lui aveva commesso a centinaia di chilometri di distanza?

    “Immagino che tu ti stia domandando come sono venuto in possesso di quella foto” disse Sidney “Be’, ti basti sapere che, sebbene in modo del tutto involontario, hai interferito con uno dei nostri programmi. E ci hai fatto buona impressione. Noi prendiamo in esame migliaia d’individui in tutto il mondo, per poi reclutare quelli che giudichiamo idonei.”

    “Reclutare? Chi? Degli assassini?”

    “Credo che sia opportuno proseguire questa conversazione fuori di qui.”

E soggiunse alzandosi: “La Pride te la offro io”.

Serse trangugiò quello che rimaneva della sua birra e lo seguì fuori dal locale.

S’incamminarono senza fretta verso la Victoria Station.

Tutto pareva irreale: l’odore della notte, il rumore dei loro passi, le luci in movimento sull’asfalto.

    “Che cosa volete da me?”

    “Ci piacerebbe che tu lavorassi per noi” rispose Sidney con l’aria di chi sta offrendo un impiego in una banca d’affari.

    “E vi aspettate che io ammazzi delle persone?”

L’altro si strinse nelle spalle.

    “È quello di cui ci occupiamo.”

    “Non credo di esserne capace.”

    “Oh. Sì, invece! La fotografia lo testimonia. Non solo, ma hai anche dimostrato di essere molto… preciso.”

Serse fu tentato di obbiettare che lui non era un assassino abituale, che l’omicidio di Ivo Bormida era stato frutto di un gesto istintivo, quasi disperato. Ma sapeva che non avrebbe fatto molta differenza.

    “Allora diciamo che non voglio farlo” disse.

Sidney sospirò.

    “Tu sei un uomo di mondo, Calvin. Non credo di doverti spiegare che, nel caso di un tuo rifiuto, la nostra agenzia non sarebbe più in grado di garantire la segretezza di quella fotografia. Pensa, potresti trovartela pubblicata sul tuo profilo di Facebook”»

In questo caso, il protagonista non subisce una minaccia diretta, non si trova di fronte a un pericolo immediato. Sì, c'è il ricatto, ma non è questo che genera paura. Anzi, la paura è del tutto assente. Parlerei piuttosto di inquietudine. Il protagonista viene a scoprire di trovarsi invischiato in un gioco più grande di lui, che sfugge al suo controllo e dal quale pare impossibile uscire. Qui la pressione è tutta psicologica. L'inquietudine sgorga dal dialogo. Un dialogo fatto di toni pacati, persino amichevoli, e di contenuti terribili.

Ed è proprio attraverso questo contrasto che prende forma il thriller.

Un altro estratto da Un testimone pericoloso.

«Palla di Lardo era dietro di lui e gli mostrava i denti in quello che, nelle sue intenzioni, avrebbe dovuto essere un sorriso.

Non si strinsero la mano. S’incamminarono in silenzio, a fianco a fianco, lungo il viale, addentrandosi nel parco.

Serse trovò buffo scoprire come la camminata dondolante di Ivo Bormida fosse terribilmente contagiosa. E intanto si sforzava di controllare un senso crescente di disagio che gli seccava la gola.

Si concentrò sullo scricchiolio cadenzato che a ogni passo le loro scarpe producevano sulla ghiaia.

    “Andiamo là” disse Palla di Lardo indicando una panchina all’ombra di alcuni alberi “mi sembra abbastanza riservato.”

Serse non poté fare a meno di notare che nel parco pareva non esserci nessun altro oltre a loro due e a una coppia di cicogne che svolazzava sopra al castello.

    “Che voglia uccidermi?” pensò, colto da un’improvvisa agitazione.

Era un’eventualità che fino a quel momento non aveva considerato. In fondo, Ivo Bormida era per lui un perfetto sconosciuto. Avrebbe potuto puntargli contro una rivoltella, costringerlo a firmare chissà quali documenti, sparargli due colpi e infine andarsene del tutto indisturbato.

Tutt’a un tratto, gli sembrò di aver commesso una grave imprudenza accettando quell’appuntamento in un luogo che all’apparenza non aveva alcun senso. Perché proprio il castello di Racconigi? Serse viveva a Torino e l’altro arrivava da Genova. Era fuori mano per entrambi.

Appunto per questo. È in campo neutro.

E nel caso di un delitto sarebbe stato più complicato stabilire i collegamenti.

D’istinto Serse rallentò l’andatura, in modo da trovarsi sempre un passo indietro rispetto a Palla di Lardo, mentre le sue dita, dentro la tasca della giacca, stringevano la lunga matita di legno, brandendola come uno stiletto»

Come nel brano precedente, la tensione si gioca tutta sul piano psicologico. Il pericolo, per ora è soltanto temuto. Il nostro protagonista ha accettato un appuntamento con un tizio che ha già dimostrato di essere, quanto meno, un poco di buono. E ora si trova da solo con lui, in un luogo isolato, privo di testimoni, senza conoscere con precisione le sue effettive intenzioni. E per questo si sente in pericolo.

Anche questo è thriller.

Come avete potuto constatare, il senso di pericolo che fa scattare la tensione e la paura può avere molte origini: un individuo armato che manifesta in modo palese intenzioni omicide, una situazione indecifrabile od oppressiva. 

Oppure il senso di pericolo può provenire dall’interno del personaggio stesso, dal suo modo di rapportarsi con determinate situazioni.

Ancora un brano tratto da Il manoscritto rubato, dove questa volta è una natura minacciosa e sovrastante ad accendere la tensione, la paura.

«Bukta svoltò lungo l’orlo del precipizio, tenendosi il più possibile a ridosso del versante della montagna. Dietro di lui, Egizia procedeva incerta, cercando di non guardare verso il burrone. Il timore di perdere l’appoggio sul terreno cedevole e di precipitare nel vuoto le rendeva i muscoli rigidi e contratti. Era scossa da brividi di freddo e di paura e il fango appiccicato ovunque, dentro le scarpe, sotto la camicia, nei capelli, rendeva tutto terribilmente reale. 

Si sentì quasi venir meno allorché Bukta si fermò all’imboccatura di un ponticello sospeso fra i due bordi del precipizio.

    “Io lì sopra non ci vado!” strillò voltandosi indietro.

L’attraversamento era costituito da tronchi di bambù legati insieme affiancati e sorretti da un elaborato intreccio di corde e liane, che formavano una sorta di parapetto alto circa un metro e mezzo. A ogni raffica di vento, il tutto ondeggiava in maniera terrificante.

La vista di quel passaggio dall’aspetto così precario fece vacillare persino l’imperturbabilità del professore, che si lasciò sfuggire un “Oh, merda”.

    “Non c’è tempo da perdere. Seguitemi!” intimò Bukta.

Imboccò la passerella e riprese: “Aggrappatevi alle corde e avanzate mettendo un piede davanti all’altro. Guardate dritto davanti a voi e non perdete di vista l’altra estremità del ponte”.

Come mise un piede sulla passerella, Egizia si bloccò, sentendo che il suo peso faceva muovere i tronchi.

    “No, non posso! Fatemi tornare indietro!” piagnucolò.

    “Coraggio! Non abbiamo altra scelta” le disse Gibuti cercando di rinfrancarla. “Sono dietro di te. Stai tranquilla.”

La ragazza fece un respiro lungo, chiuse gli occhi e mosse un altro passo sopra il ponticello, che s’inclinò ancora facendole quasi perdere l’equilibrio. Stringendo le funi che da ambo i lati fungevano da corrimano, mise avanti l’altra gamba, strascicando il piede. Il pensiero di cadere e sfracellarsi faceva sì che il cervello non riuscisse più a trasmettere alcun comando sensato ai muscoli, che parevano diventati di marmo. Le gambe si muovevano a scatti, come quelle di un pupazzo. Fissava Bukta, qualche metro più avanti, e non aveva il coraggio neppure di girare gli occhi di lato.

Quelli dietro di lei, avanzando, facevano oscillare la passerella come una barca sopra il mare in burrasca, mentre più in basso, con un rombo assordante, il torrente rotolava impetuoso contro le rocce ribollendo di schiuma. Sentiva il sudore scorrerle a rivoli per tutto il corpo, nonostante il freddo, e i battiti del cuore le rimbombavano nelle orecchie.

Procedendo più spedito, Bukta aveva guadagnato terreno e con lui sembrava allontanarsi anche la fine del ponte.

In mezzo alla passerella, sospesa come un funambolo fra due pareti di roccia, Egizia ebbe la sensazione che anche le nubi color seppia che la sovrastavano si fossero abbassate fin quasi a sfiorarla»

Per concludere, potremmo dire che il thriller nasce da un contrasto, da un conflitto, da qualcosa che sballa la realtà alla quale siamo abituati.

Provate a immaginare un personaggio inserito in un contesto di persone gentili, affidabili, amichevoli. A un tratto compare un tizio che si comporta verso il nostro personaggio in modo totalmente opposto, ostile, aggressivo, minaccioso. Allo stesso tempo, però, il nuovo venuto sembra mantenere con tutti gli altri evidenti rapporti di amicizia e di reciproca stima.

Non succede nulla di violento e dopo un po’ se ne va, così com’è venuto.

Be’, state pur certi che da quel momento il nostro personaggio non riuscirà più a vedere le altre persone allo stesso modo di prima. Gli appariranno sotto una luce diversa. Diffiderà di loro, si sentirà a disagio, isolato, persino minacciato.

Il marcato contrasto nel modo con cui prima il gruppo, poi il nuovo venuto, si atteggiano nei suoi confronti, ma soprattutto il fatto che questo contrasto non sembri essere percepito da nessun altro, tranne lui, lo destabilizza, causandogli insicurezza, tensione.

Vi ricordate il computer HAL 9000 nel film 2001 Odissea nello spazio? Vi ricordate il tono pacato, suadente, con il quale comunica al comandante della navicella di avere appena ucciso gli altri astronauti che viaggiavano in ibernazione? È proprio questo contrasto fra toni e contenuti a innescare la tensione, la paura. Ed è questa paura che induce il comandante a disattivare il computer, segnando così il proprio destino.

Anche questo è thriller.

Persino una storia d’amore può diventare un thriller, se uno dei due amanti si rivela uno stalker.

Potremmo proseguire all’infinito con gli esempi.

Ma non abbiamo ancora dato una risposta definitiva alla domanda centrale: perché ci piace aver paura?

Innanzitutto, cos’è che ci mette paura?

Quand’eravamo bambini, una stanza buia ci metteva paura, eppure era come se ci fosse una forza misteriosa e invisibile che ci spingesse a varcare quella soglia.

Avremmo avuto la stessa paura e la stessa curiosità se la stanza fosse stata illuminata? Certamente no.

Quindi la paura è associata all’oscurità, cioè a qualcosa che non riusciamo a decifrare, ma che allo stesso tempo vorremmo svelare.

Abbiamo paura di ciò che è ignoto, ma l’ignoto comunque ci attrae, come succedeva ai grandi navigatori del passato di fronte all’oceano infinito.

E allora familiarizziamo con la paura, cerchiamo di addomesticarla, ci giochiamo. 

Ci divertiamo con i thriller.

Non importa che siano gialli, storie di spionaggio, thriller avventurosi, fantascientifici o psicologici. La scelta dipende dal gusto personale.

Quello che conta, comunque, è rabbrividire.

In un modo o nell'altro.